Lavori fatti male/La palazzina “faceva acqua” imprese condannate al risarcimento di 120 mila euro

Le contestazioni per opere edilizie realizzate non a dovere non sono una novità, ma i vizi che si sono ritrovati cinque famiglie di Cazzago di Pianiga, nel veneziano, erano proprio marchiani: la loro palazzina faceva acqua, nel vero senso della parola.
C’è voluta una battaglia di quasi tre lustri, col supporto di Studio3A, ma alla fine anche la Corte d’Appello di Venezia ha dato loro ragione, condannando l’impresa committente, quella che ha realizzato la maggior parte degli interventi e il direttore lavori, in solido, a risarcire i danneggiati con una somma di circa 120mila euro: una sentenza, quella depositata il 27 gennaio 2021 dai giudici lagunari, rilevante anche per quel che riguarda l’aspetto della prescrizione.

I sette residenti si erano rivolti allo Studio3A nel 2007: avevano acquistato i 5 appartamenti di un complesso condominiale costruito in via Molinella dalla allora Thermoidraulica snc, ma dopo un anno e fino al 2011, avevano iniziato a evidenziarsi gravi problemi, nelle singole unità immobiliari e nelle parti comuni, e restavano opere da ultimatre: infiltrazioni, fessurazioni, distacchi di intonaco e dipintura, ammaloramento e annerimento delle pareti, muffa, tegole rotte, rivestimenti in marmo con problemi di tenuta stagna, distacco dei battiscopa e del pavimento in legno, solo per citare alcuni dei “difetti” (un eufemismo), la cui gravità, pur non pregiudicando la stabilità dell’edificio, rientrava nei vizi meritevoli di tutela ex articolo 1669 del codice civile, “rovina e difetti di cose immobili”, di cui l’appaltatore è responsabile per dieci anni dal loro manifestarsi.
I proprietari hanno segnalato la pesante situazione alla ditta costruttrice-venditrice, Thermoidraulica, e a quella che aveva effettuato gran parte delle opere, l’impresa edile Andriolo, poi conferita nella Aleda Immobiliare sas, sempre di Alessio Andriolo.
Le quali avevano dato rassicurazioni che avrebbero provveduto, ma a parte un piccolo intervento di ripristino non non avevano più fatto nulla.
Dopo lunghe peripezie, legate anche alle vicende societarie delle imprese, nel febbraio 2014, il consulente tecnico d’ufficio nominato dal giudice, dott. Enrico Schiavon, del Tribunale di Venezia, sezione staccata di Dolo (che all’epoca esisteva ancora), confermò la gravità dei vizi costruttivi, ritenendo responsabili le due imprese più il direttore dei lavori, il geometra Luigino Ometto.
Ma neanche questo è bastato ai tre soggetti per ammettere le loro responsabilità.
Così, nel marzo 2015, non è rimasto che presentare, attraverso gli avv. Piccoli e Menin, una citazione in causa avanti il Tribunale di Venezia.
E il giudice, dott.ssa Maddalena Bassi, con sentenza del settembre 2019, ha dato ragione ai danneggiati e ai loro patrocinatori, ritenendo tutte le parti citate responsabili degli addebiti e condannandoli in solido tra loro (determinando anche la percentuale) a risarcirli della somma di 73mila euro oltre alla rivalutazione monetaria e agli interessi legali dal 2011 e al pagamento di tutte le spese per le tante consulenze tecniche e quelle di lite: una cifra complessiva di 120mila euro.
Tutto finito? Per nulla, le imprese e il professionista hanno appellato la sentenza contestando ancora nel merito le sussistenza e gravità dei vizi e la loro responsabilità ma sostenendo soprattutto la tesi, l’ultima che restava loro, che il diritto dei proprietari degli immobili di cui all’art. 1669 c.c. si sarebbe prescritto in quanto le domande risarcitorie sarebbero state azionate dopo il termine di prescrizione.
Ma la quarta sezione civile della Corte d’appello, presieduta dal giudice dott. Giovanni Callegarin, ha rigettato l’appello confermando in buona sostanza la liquidazione del danno già fissata in primo grado (decurtata di soli 1.700 euro) e chiarendo un punto rilevante a carattere generale.
I giudici territoriali hanno ribadito che il termine decadenziale per presentare le domande risarcitorie decorre dal giorno in cui il danneggiato consegue un apprezzabile grado di conoscenza oggettiva della gravità dei difetti e della loro derivazione causale dall’imperfetta esecuzione dell’opera, “non essendo sufficienti manifestazioni di scarsa rilevanza ovvero i semplici sospetti”: conoscenza che i proprietari degli immobili, nello specifico, avevano raggiunto solo dopo la prima relazione tecnica effettuata da un professionista nel 2011, e quindi non dal 2007-2008.
Ma, soprattutto, hanno affermato che la notificazione del ricorso per consulenza tecnica preventiva, rientrando quest’ultima nella categoria dei giudizi conservativi, determina l’interruzione della prescrizione, che si protrae fino alla conclusione del procedimento: conclusione che, ha stabilito la Corte, convenendo con l’interpretazione del giudice di primo grado e dei legali dei danneggiati, coincide non con il deposito della relazione del consulente nominato, come accade per l’Accertamento Tecnico Preventivo, ma con la chiusura della procedura da parte del giudice.
“Una soluzione – recita la sentenza – conforme ai principi generali che si desumono dagli arti. 2943 e 2945 c.c. in base ai quali ogni giudizio, di cognizione, cautelare o esecutivo, interrompe la prescrizione e tale effetto interruttivo perdura fino a quando non sia terminato il relativo procedimento e la cui ratio consiste nella considerazione che fino a quando un diritto è trattato avanti a un giudice non possa decorrere la prescrizione”.
Nel caso di specie, il procedimento ex art. 696 bis del Codice di Procedura Penale (ossia la consulenza tecnica preventiva) era stato dichiarato chiuso dal giudice il 4 luglio 2014 e la successiva citazione in causa era stata notificata il 20 marzo 2015, quindi ampiamente entro i termini di un anno.